Nel nome di Nicola Lo vecchio, operaio

135mila euro. E’ il prezzo di una vita umana per i vertici dell’ex Enichem, sotto processo a Manfredonia -in provincia di Foggia- per disastro ambientale e omicidio colposo plurimo. E’ la cifra offerta “con atto solidaristico per venire incontro alle esigenze familiari delle parti coinvolte a vario titolo come persone offese”. E’ la somma rifiutata con sdegno da Anna Maria Cusmai, la vedova di Nicola Lovecchio, il lavoratore autodidatta capace, negli anni ’90, di una ricostruzione scientifica dei cicli produttivi interni al petrolchimico, indagine condotta assieme all’oncologo Maurizio Portaluri e che ha portato all’incriminazione di dieci ex dirigenti dell’Eni e due esperti di medicina del lavoro dell’Università di Bari. Lovecchio è morto nel 1997, all’età di 49 anni, per un tumore al polmone.

La storia ha inizio l’ultima domenica di settembre del 1976, l’anno di Seveso. Una boato, a metà mattinata, scosse la fabbrica costruita pochi anni prima nella baia degli ulivi, a pochi chilometri dall’abitato di Manfredonia, e specializzata nella produzione di fertilizzanti. L’esplosione di una colonna di lavaggio dell’ammoniaca fece disperdere 10 tonnellate di anidride arseniosa e 18 tonnellate di ossido di carbonio. In una vasta zona circostante dello stabilimento “l’arsenico si raccoglieva a pezzi, una massa fluida giallastra”, come hanno testimoniato alcuni operai al processo. La contaminazione ambientale espose a grave rischio i circa duemila addetti della fabbrica e i dodicimila residenti del vicino rione Monticchio. “Nulla di grave”, tranquillizzarono i vertici dell’allora Anic, in seguito Enichem. Ai cronisti della Gazzetta del Mezzogiorno fu spiegato che “lo scoppio, causato da un incidente tecnico, non aveva provocato alcun danno. E che quella nube non era né più né meno l’effetto che si ha accendendo una sigaretta”.

Questo venne ripetuto ai lavoratori e alla cittadinanza, per settimane. La versione dell’Enichem sarebbe passata alla storia come quella ufficiale se non si fossero registrate 16 morti sospette tra i lavoratori del petrolchimico e altri casi di patologie tumorali. Soprattutto senza il meticoloso lavoro di ricostruzione dei cicli produttivi e delle materie prime utilizzate, realizzato dall’ex capoturno del magazzino fertilizzanti, Nicola Lovecchio. Non fumava né beveva, l’operaio manfredoniano che poco che più che trentenne scoprì nel 1994 di aver contratto una forma di neoplasia polmonare. Decisivo fu l’incontro con Portaluri, nel 1995 all’ospedale di San Giovanni Rotondo. L’oncologo esponente di Medicina Democratica fu il primo a collegare la malattia di Lovecchio al lavoro in fabbrica. Cominciarono il lavoro di indagine in perfetta solitudine, difficile fu anche la raccolta delle cartelle cliniche degli altri operai deceduti, impossibile convincere altri lavoratori ad unirsi alla battaglia. Fu così che si giunse all’esposto denuncia contro l’Enichem del 1996. Il 21 novembre dello stesso anno Lovecchio, già gravemente malato e sottoposto a numerosi cicli di chemioterapia, sostenne un interrogatorio di oltre 8 ore. Si fermò solo una volta per chiedere una caramella. “Non posso stare seduto ad aspettare che questa malattia mi consumi del tutto senza aver fatto nulla per riacquistare la mia dignità di uomo”, scriverà in una sorta di testamento. Morirà sei mesi dopo. Era malato dal 1991, ma i medici dell’azienda avevano omesso di rendere note le sue reali condizioni di salute. Si dovette ricorrere ai carabinieri per entrare in possesso delle cartelle cliniche. L’azienda sapeva e aveva taciuto. Come nel 1976.

Al processo contro l’Enichem, accusata di aver adibito “i lavoratori all’attività di disinquinamento e, più in generale, consentendo l’ingresso dei dipendenti all’interno dello stabilimento senza adottare cautele idonee, pur essendo nota la tossicità dell’asenico e potendosi prevedere la pericolosità per la salute”, sono una trentina i soggetti ammessi dal tribunale di Manfredonia come parti civili. Accanto alla stessa Medicina Democratica ci sono Legambiente, il Wwf, la Regione Puglia, la Provincia di Foggia, il Comune di Manfredonia, il ministero dell’Ambiente. Nell’elenco figura anche l’associazione Bianca Lancia, composta da tutte donne, che nel 1988 ha denunciato alla Corte europea dei diritti dell’uomo gli effetti dannosi prodotti dallo stabilimento chimico sulla popolazione. Parlano i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: nella zona di Manfredonia si è registrato negli anni un eccesso di mortalità per tumori allo stomaco nei maschi (39 osservati rispetto ai 27 attesi) e un aumento di tumori alla laringe, tumori maligni alla pleura (3 decessi rispetto a 1 atteso) e di mielomi multipli (4 casi rispetto a 2,2 attesi) per le donne, in aumento come le leucemie (12 casi rispetto ai 9,9 attesi). Sempre secondo uno studio dell’Oms, sono in crescita anche le malattie non tumorali dell’apparato genito-urinario (41 casi osservati rispetto ai 26,6 attesi), “eccessi riscontrati che possono essere indicativi di effetti dalle esposizioni da arsenico”. E’ durata dieci anni la battaglia di Bianca Lancia, fino al clamoroso risultato del 1998: la condanna dell’Italia da parte della Corte di giustizia europea per inadempienze in materia ambientale e per la gestione dell’inquinamento del sito Enichem di Manfredonia, oltre che per la violazione dell’articolo 8 della Convenzione di Strasburgo che recita come “ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare”, diritto violato dalle emissioni nocive del petrolchimico non impedite dalle autorità statali.

A raccogliere il testimone della battaglia per la verità di Nicola Lovecchio ci hanno pensato i suoi amici, come lo stesso Portaluri e il medico Tonino D’Angelo, presidente del Tribunale per i Diritti del Malato, o il giornalista Giulio Di Luzio, che ha raccolto la storia del caportuno del magazzino fertilizzanti in un libro, “I fantasmi dell’Enichem”, edito da Baldini e Castaldi Dalai. Ma a tenere viva la memoria di Lovecchio ci sono soprattutto i figli e la vedova, Annamaria Cusmai. Mai nessuna voglia di rivalsa o vendetta nelle sue parole, sempre miti, di grande dignità. La stessa che la porta a non perdere una sola udienza del processo, “per me è un dovere nei confronti dell’impegno civile di Nicola”, così come a rifiutare l’offerta in denaro della Syndial (l’evoluzione societaria dell’Enichem). Non che non farebbero comodo 135mila euro, con un figlio costretto ad emigrare in cerca di occupazione e un altro impegnato in lavori saltuari. “Ma una vita e la stessa verità non hanno prezzo. Non possiamo tradire l’esempio di Nicola. E’ lui a darci la forza per andare avanti. Sogno che verrà il giorno della condanna, che dimostrerebbe come uniti si vince, che la solidarietà tra gli uomini è un’arma forte contro l’ingiustizia, la prevaricazione”.

Ma c’è sempre qualcuno che volutamente dimentica. A ridosso dei 306 ettari di superficie a terra e 859 ettari di superficie a mare inquinati da rifiuti altamente tossici, dal 1996 si sono insediate oltre 20 aziende, che hanno potuto accedere a lauti finanziamenti statali e comunitari per progetti di reindustrializzazione decisi per contrastare la crisi occupazionale e sociale derivata dalla chiusura dell’Enichem. Anche se l’area in questione è stata inserita dalla legge 426/98 tra le 16 zone di interesse nazionale da bonificare, lì vi lavorano oggi circa mille persone. Non è mancata, nell’estate 2002, una procedura d’infrazione comminata all’Italia dalla commissione ambiente dell’Unione europea, per non aver adottato “le misure necessarie ad assicurare che i rifiuti, stoccati e depositati in discarica presenti nel sito Enichem, fossero recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell’uomo e pregiudizio dell’ambiente”. A ottenere l’autorizzazione alla bonifica del sito, con soldi pubblici, la stessa Eni. A distanza di circa 3 anni e mezzo dal richiamo comunitario, la bonifica non è stata completata. E le torri del petrolchimico ancora campeggiano sul golfo di Manfredonia.